La comunicazione ambientale e la facilitazione: quale rapporto? Incontro con Stefano Martello

La comunicazione ambientale e la facilitazione: quale rapporto? Incontro con Stefano Martello

Foto di Jon Tyson su Unsplash

Se facilitare è aiutare a comunicare, a chi di mestiere fa il comunicatore, cosa resta? Domanda provocatoria ma la risposta potrebbe non essere così banale. Per questo abbiamo incontrato Stefano Martello, giornalista e comunicatore, che si occupa da sempre di comunicazione ambientale e sociale. Le risposte sono molto intriganti. Buona lettura! (intervista raccolta da Nicola Giudice)

Spesso istituzioni e imprese confondono le figure del comunicatore e del facilitatore. Eppure si tratta di competenze e obiettivi diversi che andrebbero distinti. Qual è la tua opinione al riguardo?

Si tratta di un fraintendimento diffuso che in parte origina dalla forte “assonanza relazionale” tra i due profili e, più in generale, ci restituisce l’idea di due distinte professioni che singolarmente non si sono ancora pienamente accreditate. Ancora oggi – e credo che la cosa accada anche a te – mi trovo a dover letteralmente spiegare la mia professione, disinnescando quelle leggende metropolitane che sembrano suggerire un mestiere creativo, in cui la soluzione al dilemma contingente viene risolta con escamotage semantici più che con obiettivi definiti (e, dunque, realistici e misurabili) e strategie conseguenti. Che, in più, devono tenere conto del patrimonio reputazionale dell’organizzazione servita.
C’è poi un problema immenso che riguarda il tono e la struttura di una riflessione, qualunque essa sia e qualunque sia l’oggetto. Non riusciamo più ad andare in profondità e ci accontentiamo di corrispondenze che vengono elevate a verità assolute, senza di fatto esserlo. Senza accorgerci – o senza volerci accorgere – che i momenti di intervento, le funzioni, gli scopi sono profondamente differenti. Questo, chiaramente, non vuole significare che le due figure non debbano parlarsi o confrontarsi, anzi. Per esempio, trovo che la caratteristica della neutralità – propria del facilitatore – possa rappresentare una risorsa decisamente preziosa, ancora di più in un ambito (quello ambientale) profondamente polarizzato nei suoi stessi caratteri identitari prima ancora che nelle scelte strategiche e strumentali. E, in questo senso, trovo che sia importante continuare a lavorare sul concetto di autorità, sganciandolo progressivamente da un carattere di mero carisma (troppo soggettivo e casuale) e ancorandolo ad una necessità diffusa, mitigando così il rischio di conflitti e di immobilismi. Così come trovo che la strada dell’accreditamento del comunicatore non si sia ancora conclusa, soprattutto nelle organizzazioni medio piccole che pure caratterizzano il tessuto produttivo del Paese.

Il dibattito in ambito ambientale è estremamente ricco di opinioni molto forti e polarizzate. Quale ruolo dare ai dati e ai fatti? E come comunicarli in modo efficace?

Sono due i punti che vorrei sviluppare. Il primo riguarda – in qualche modo affiancando la polarizzazione che giustamente evochi – la contraddittorietà tra ciò che pensiamo o auspichiamo e i nostri comportamenti quotidiani. Ed è un sentimento che ci coglie tutti, senza alcuna distinzione. Io credo molto nei temi che pratico ma non posso negare che mi sia pesato, per esempio, dover cambiare automobile per poter continuare a spostarmi nella mia città.
Il secondo punto riguarda la visione della Fiducia, troppo caratterizzata da elementi caratteriali (bontà, integrità, simpatia, antipatia) e poco concentrata sulla competenza. Insomma, io mi fido ciecamente della persona con cui condivido la mia vita, ma se ho mal di denti non mi rivolgo certamente a lei (che non ha mai studiato medicina) bensì ad un professionista che sa dove mettere le mani.
Al contrario, trovo che la “nostra” fiducia – il modo in cui la accordiamo e ce la riprendiamo – sia troppo variabile, troppo soggetta a cadute ed impennate. Troppo friabile. E questo rende certamente difficile l’applicazione di una strategia di medio lungo periodo.
In un contesto così mutevole, i dati, le evidenze scientifiche rappresentano un facilitatore prezioso. Ci dicono, in maniera oggettiva, quale è il nostro punto di partenza, che tipo di forza e struttura dobbiamo dare alle nostre soluzioni, persino quale è lo spazio di manovra che ci possiamo permettere rispetto ad un dato fatto. Ma si tratta anche di una sfida, di una tensione che non è solo professionale ma anche strettamente deontologica, nel momento in cui dobbiamo declinare la portata di quei dati ad un pubblico sempre più frastagliato, per aspettative e competenze pregresse.
Non credo che esista una tecnica per assicurare l’efficacia dell’intervento ma credo fortemente che esista un metodo che potrei sintetizzare in due parole: ascolto e sincerità. Il primo serve per capire chi hai di fronte, le sue aspettative, i suoi dubbi, le sue paure. La seconda è un richiamo a non cedere alla convenienza del momento, alle manciate di consenso un tanto al chilo, a non gigioneggiare con le parole.
Potremo anche sbagliare, ma sbaglieremo sempre in buona fede, non mettendo in pericolo la solidità relazionale del rapporto.

Nell’organizzare i processi di facilitazione e di partecipazione si parte molto spesso dall’assunto che, una volta garantita la possibilità di partecipare ed essere ascoltati, le comunità parteciperanno. Alla prova dei fatti non è così. Quali possono essere gli strumenti più adatti per comunicare l’utilità della partecipazione collettiva?

Sono nato nel 1974 e sono stato professionalmente allevato al culto ossessivo della velocità. Di analisi, di critica, di esecuzione e di raggiungimento del risultato. Per fortuna, con il tempo mi sono reso conto che velocità non è sinonimo di efficienza e reattività e che, anzi, in molti casi, contribuisce alla nascita di asimmetrie che, non attenzionate, possono diventare veri e propri ostacoli difficili da estirpare. Tuttavia il problema rimane. E sono ancora tanti quelli che pubblicano un libro senza preoccuparsi di confrontare con i pubblici le pagine appena scritte.
Anche in questo caso, occorre buon senso. Poniamo il caso di una riunione di condominio; la stessa viene anticipata da una comunicazione in cui il singolo condomino può leggere l’ordine del giorno. Può cioè capire in maniera immediata se gli argomenti in discussione lo riguardano, lo interessano, comportano per lui una spesa, un investimento e via dicendo. E allora concentriamoci sulla parte contenutistica che anticipa l’incontro e che in qualche modo lo qualifica. Per farlo, con una effettiva chance di successo, dobbiamo ascoltare il territorio, non dimenticando mai che ogni territorio esprime caratteristiche del tutto uniche e non replicabili. Che in più cambiano nel tempo. E cerchiamo di farlo con la lentezza, con la coerenza e la costanza nel tempo. E mentre lo facciamo, cerchiamo anche di disinnescare lo scetticismo, il tanto non si risolve nulla, il siamo in troppi magari anche con azioni “tattiche” e solo apparentemente interlocutorie. Con l’obiettivo di accreditare culturalmente il processo sino a farlo divenire parte integrante del modello decisionale di una comunità. Lo ripeto, si tratta di un processo di sedimentazione di cui magari non vedremo mai il punto di approdo, ma vale la pena tentare, anche rispetto ad un sistema di posizionamento che ha dimostrato tutta la propria parzialità.

L’esperienza di Facilitambiente nasce da una considerazione: chi vive una controversia in ambito ambientale afferma che sarebbe stato meglio mettersi al tavolo prima che il conflitto emergesse. Quando però è il momento di mettersi al tavolo “prima”, c’è sempre qualche difficoltà e resistenza. E’ solo un problema dei singoli oppure c’è una diffusa difficoltà a comunicare in modo efficace?

Ammettiamolo, siamo un po’ tutti “animali mediterranei” e abbiamo sempre una certa ritrosia nel confrontarci con i rischi potenziali, preferendo misurarci con una crisi già conclamata e in essere. Il richiamo del Tenente Drogo che ha speso la sua vita scrutando l’orizzonte in cerca di un nemico che tardava ad arrivare non è mai stato così irresistibile. Non casualmente, definiamo questa branca della materia come “comunicazione di crisi” e non come “comunicazione di prevenzione del rischio”. Senza contare che tra le tre macro fasi che la strutturano (prevenzione, contrasto, rilancio), la prima sia la meno applicata, con ripercussioni sulla resa della seconda e sulla stessa possibilità di una fase di rilancio. Perché se non sei pronto a contrastare un rischio, allora ti devi necessariamente fidare del tuo intuito e contare su azioni improvvisate, prive di qualsiasi strategia strutturata, con il solo obiettivo di tamponare la falla contingente. Senza neppure poterti permettere il lusso di riflettere su quello che ti è appena accaduto e sul modo per non farlo accadere più.
Il nostro compito – sia pure da posizioni e con ruoli differenti – è quello di continuare a dire, ossessivamente se occorre, che quel tempo utilizzato in maniera apparentemente impropria per preparare noi stessi e l’organizzazione che rappresentiamo ad affrontare delle criticità che in quel preciso istante non esistono neppure è tempo guadagnato. Un vero e proprio allenamento che ci consentirà di essere più competitivi nel momento in cui il nostro operato verrà misurato da un cronometro crudele e privo di qualsiasi empatia e considerazione. E che la questione non riguarda il se quanto piuttosto il quando.
Credo che sia importante non perdere l’attitudine al monitoraggio di quei segnali deboli e impercettibili, magari prevedendo nella cornice di un progetto o di una condotta delle azioni intermedie di misurabilità degli effetti prodotti, verificando se gli stessi corrispondano alle aspettative o meno. E in questo ultimo caso, promuovendo una fase di analisi critica per capire da che cosa dipenda quello scostamento.

La protesta ambientale, da “Fridays for Future” a “Extinction Rebellion”, guadagna l’attenzione dei media. Rispetto a questo fenomeno, chi si occupa professionalmente di comunicazione, che impressione ne ricava?

Una impressione di sconfitta, di perdita di senso del nostro agire. Perché la colpa è nostra, magari non mia o tua in senso strettamente personale, ma il rischio di una imputazione di favoreggiamento c’è. Ed è dolorosamente palpabile. La collega Giulia Armuzzi – che ho avuto il privilegio di veder crescere in quello splendido esperimento di dialogo intergenerazionale che è Comm to Action – ha individuato in un recente intervento per i Quaderni del Salone della CSR e dell’innovazione sociale alcuni momenti di questo dialogo mai nato – almeno non in maniera paritaria – sottolineando come proprio l’esclusione abbia favorito una narrativa sempre più vendicativa e arrabbiata, inibendo la stessa possibilità di una contaminazione che avrebbe mitigato i difetti propri di ciascuna parte, esaltandone i pregi: magari il “nostro” entusiasmo sarebbe servito a sradicare l’attendismo mentre la “vostra” pragmaticità/esperienza avrebbe evitato i fraintendimenti che ci sono stati. Giulia rimprovera – a ragione – il fatto di aver utilizzato proprio la comunicazione per ritardare l’assunzione di responsabilità e di azioni probabilmente dolorose pur di evitare scomode uscite da una confort zone che non ci dispiace affatto. Se non altro perché ci permette di continuare a parlare sempre delle stesse cose, con quello stesso timbro paternalista che oramai non convince più nessuno. Qualche tempo fa ero con l’amico e mentore Sergio Vazzoler ad un incontro pubblico con studenti e studentesse di scuola media superiore. Ad un certo punto, uno dei relatori (decisamente senior) inizia a snocciolare una lunga lista celebrativa di attività e progetti che la sua organizzazione aveva realizzato. Dopo cinque minuti, uno studente alza la mano e chiede semplicemente perché, se tutto è stato fatto così bene, ci troviamo al punto in cui ci troviamo.
Di fatto, ora siamo davanti ad un bivio. Possiamo continuare ad ostentare sorrisetti sarcastici scuotendo la testa o possiamo cercare di sanare una frattura, una distanza che oggi è emotiva e che in un futuro prossimo rischia di diventare definitiva. Sono ancora una volta d’accordo con Giulia nel definire la prima strada come più semplice, persino più consolatoria nella cristallizzazione di buoni e cattivi. Ma è anche una strada che sancirebbe l’ipotesi di un cambiamento che non ha bisogno né di Junior né di Senior. Preferisco imboccare la seconda strada, certamente più impervia, cercando di riannodare il senso e l’utilità di un dialogo che non è mai partito. Essendo perfettamente consapevole del passato ingombrante e delle false partenze che lo hanno caratterizzato e che ancora lo ammantano. Non forzando i tempi e magari partendo da iniziative più contenute e meno ambiziose per testare, in prima battuta, i termini della nascente collaborazione.
Alcuni lo fanno già – Comm to Action, che ho già citato, o gli amici e le amiche di Amapòla con il loro Comitato d’Impatto – con risultati decisamente promettenti e positivi. Anzi, reciprocamente promettenti e positivi.

 

Stefano Martello (Roma, 1974) è giornalista e comunicatore e si occupa prevalentemente di comunicazione ambientale e sociale. Già componente del gruppo di lavoro sulla sostenibilità di Ferpi (Federazione Relazioni Pubbliche Italiana), è senior mentor del Laboratorio di comunicazione Comm to Action di Bologna, coordinatore di Eco Media Academy, condirettore della collana New Fabric di Pacini Editore e componente del tavolo Ambiente e Sostenibilità di PA Social. Ha curato, con Sergio Vazzoler, Libro Bianco sulla comunicazione ambientale (Pacini, 2020) e  L’anello mancante. La comunicazione ambientale alla prova della transizione ecologica (Pacini, 2022).