Dopo aver dialogato con Maria Cristina Lavazza e Federico De Nardo, oggi incontriamo Paola Ottomano, che collabora come facilitatrice per FacilitAmbiente. Paola ha costruito la sua carriera su esperienze in contesti internazionali complessi, dall’America Latina alle Filippine fino all’Etiopia. In questa intervista, ci racconta il suo percorso e le sue riflessioni sul ruolo della facilitazione nei contesti internazionali e comunitari di conflitto.
Il tuo percorso di studi si è concentrato sulla gestione dei conflitti. Nel tuo percorso, hai lavorato come project manager in programmi di trasformazione dei conflitti in contesti internazionali, occupandoti di risorse naturali e del supporto alle minoranze etniche. Raccontaci di più delle tue esperienze, anche attuali.
Provengo da un percorso formativo giuridico. Successivamente ho seguito numerosi corsi di approfondimento e specializzazione, in particolare nella mediazione dei conflitti, sia in ambito familiare che comunitario, per gruppi di dimensioni diverse. Ho deciso di specializzarmi ulteriormente in contesti internazionali e in situazioni di conflitto, anche violento, da cui è evoluta la mia esperienza professionale. Adesso sto lavorando a un progetto a supporto dell’Etiopia, attraverso cui mi occupo del dialogo a livello di comunità.
E in questo modo ti sei avvicinata alla facilitazione?
Sì, mi sono resa conto che molti degli strumenti che utilizzavo nella mediazione e nella gestione dei progetti avevano notevoli sovrapposizioni con la facilitazione. Inoltre, nel dialogo a livello comunitario non si punta necessariamente a raggiungere un accordo, come invece accade nella mediazione in senso stretto. In questo caso, il focus iniziale è sullo scambio e sulla comprensione reciproca. Quindi, la facilitazione si concretizza nella presenza di una terza persona che agevola la comunicazione tra soggetti che non riescono a dialogare autonomamente, intervenendo in una fase diversa dell’incontro.
Suppongo ci siano differenze anche quando il dialogo di comunità si svolge in contesti di conflitto, che richiederanno modalità differenti di approccio e gestione.
Sì, ritengo che la principale differenza risieda nel fatto che, a seguito di un conflitto, molte relazioni risultano già compromesse o alterate, rendendo l’incontro più complesso e richiedendo strumenti specifici. In un contesto segnato da un conflitto violento, dove le persone hanno subito lutti e perdite, è fondamentale adottare un tono e un approccio adeguati. Al contrario, in un contesto di prevenzione, è probabile che le relazioni non siano ancora completamente consolidate ed è più difficile che vi siano forti polarizzazioni. L’obiettivo, in questi casi, può limitarsi a raggiungere un accordo su determinate scelte, permettendo l’uso di strumenti e approcci differenti. In generale, però, molti metodi di facilitazione condividono principi comuni, pur richiedendo adattamenti specifici in base al contesto e alla situazione affrontata.
Lavori per una fondazione, giusto? Venite quindi ingaggiati principalmente in progetti da parte di stakeholder locali o istituzioni?
Sì, lavoro per la Fondazione Berghof, che opera come una ONG internazionale. Per quanto riguarda l’ingaggio, in genere sono coinvolti diversi attori, locali e internazionali. Sicuramente gli interlocutori locali hanno un ruolo fondamentale, poiché sono loro ad avere legittimità e autorità sul proprio territorio, ed esprimono bisogni, richieste e interessi. Tuttavia, spesso i finanziamenti provengono anche da donatori esterni, come organizzazioni internazionali, ad esempio le Nazioni Unite, l’Unione Europea, o anche diversi stati che decidono di supportare specifici progetti.
Le istituzioni o gli attori locali sono generalmente aperti alla vostra presenza e al vostro intervento?
Penso che dipenda molto dal contesto e dalla capacità di trovare terreni comuni. Certamente, ci sono temi su cui anche le istituzioni possono essere più favorevoli a un intervento di questo tipo, mentre su altri potrebbero esserci maggiori riserve. Alla fine, però, la decisione finale spetta agli attori locali, che sono coloro che gestiscono il loro processo e ne determinano l’orientamento.
Vi è mai capitato che, durante il percorso, alcuni attori locali o altre parti coinvolte decidessero di tirarsi indietro? Magari perché avevano aspettative diverse su cosa il percorso dovesse comportare o sui risultati attesi?
Sì, nella mia esperienza è successo, perché questi sono processi lunghi, costituiti da diverse fasi che si alternano. Ci sono momenti di grande entusiasmo o apertura, che poi possono essere seguiti da periodi di maggiore difficoltà o da fasi in cui ci si ritira, per riflettere o per adottare diverse strategie. Tuttavia, non vedrei questi momenti come chiusure definitive. Piuttosto, guardando il tutto con una prospettiva a lungo termine, li vedrei come un’alternanza di fasi che raramente esclude del tutto il dialogo e la comunicazione.
E la comunità è favorevole solitamente a questi percorsi o si approccia con scetticismo?
Nella mia esperienza, che può variare a seconda del contesto, ho sempre riscontrato una notevole apertura e interesse verso il dialogo. Spesso, c’è una vera necessità di interventi di questo tipo, poiché le persone vogliono essere ascoltate, considerate e avere voce nelle decisioni che le riguardano. In generale, i percorsi di facilitazione vengono accolti positivamente.
Tuttavia, in situazioni dove ci sono state grandi aspettative non soddisfatte, alcune persone possono essere reticenti, percependo l’approccio come inefficace sulla base di esperienze passate. Nonostante queste resistenze, ciò che emerge più frequentemente è un forte desiderio di partecipare attivamente e di esplorare nuove opportunità di cambiamento e dialogo.
Quanto dura mediamente un percorso di riconciliazione?
La durata dipende molto dal tipo di processo. Ad esempio, la fase formale di una negoziazione di pace tra due parti in un contesto di guerra civile – come un governo e un gruppo armato che decidono di sedersi al tavolo delle trattative – può consistere in uno o più incontri di pochi giorni, distribuiti su un periodo più o meno lungo (mesi o alcuni anni). Tuttavia, anche quando si raggiungono degli accordi, questi non corrispondono al pieno raggiungimento della pace, ma possono essere visti come una importante tappa di un percorso spesso più lungo e articolato, che potrebbe includere un processo di rielaborazione del passato, o continuazione della negoziazione in altre forme.
In alcuni contesti, le negoziazioni non hanno inizialmente buon esito, ma possono essere un passo verso negoziazioni successive. In altri casi si raggiunge un accordo, ma le fasi di negoziazione si possono alternare a fasi di riacutizzarsi del conflitto. I negoziati, potrebbero fare progressi su alcuni temi, ma lasciare aperte altre questioni, richiedendo più cicli di trattative e nuove negoziazioni. In quest’ottica, la durata di questi processi può essere davvero estesa. Mi vengono in mente esempi come Palestina e Israele, le Filippine, dove ho lavorato io stessa, o la Colombia.
Se guardiamo a processi di facilitazione, negoziazione o mediazione, la durata può variare notevolmente, da pochi giorni a settimane o mesi, e in alcuni casi anche un paio d’anni. Un esempio che mi viene in mente è quello della Colombia, dove i processi di dialogo sono stati intensi e prolungati nel tempo.
Inoltre, un processo di trasformazione dei conflitti può solo avvenire se coinvolge i vari livelli della società, pertanto non si limita alle negoziazioni tra le élite dei principali attori politici, ma riguarda la società nel suo complesso. In questo tentativo di coinvolgimento più ampio della società si collocano anche i dialoghi di comunità, di cui mi sono spesso occupata negli ultimi anni. Anche in questo caso, la durata di ciascun incontro è di alcuni giorni, alla fine dei quali si valutano i risultati raggiunti e si decide se il processo si possa concludere o se siano necessari ulteriori passi. A volte può essere utile programmare un altro incontro all’interno della stessa comunità, in altri casi sono necessari interventi diversi per affrontare le problematiche emerse.
Se si guarda alla pace in senso ampio, il processo complessivo, dunque, è molto lungo, e si compone di tanti piccoli passaggi e incontri, spesso di pochi giorni, a vari livelli della società e con il contributo di vari attori. Questi sforzi, nel loro insieme vanno a comporre il quadro generale di trasformazione del conflitto.
Lavorando in contesti violenti ha mai sentito che questa violenza potesse raggiungere anche te in qualche modo in qualche forma?
È sempre difficile misurare il rischio reale, ma comunque esistono dei meccanismi e delle misure per valutare queste situazioni e strategie per minimizzare il rischio. Esistono specifiche linee guida all’interno delle quali muoversi, e con questa preparazione si valuta di volta in volta cosa sia e cosa non sia opportuno fare, poi è chiaro che esiste sempre un margine di rischio. Finora, nei contesti e nelle organizzazioni rispetto alle quali ho lavorato io, non ho sentito grave preoccupazione rispetto a questo.
L’approccio che adottiamo nel dialogo favorisce un incontro reciproco e un’accettazione da parte di tutte le parti coinvolte rispetto al processo. Questo consenso generale aiuta a garantire una maggiore sicurezza, poiché coinvolgere i principali attori locali è fondamentale per costruire un ambiente sicuro e costruttivo.
In base alle tue esperienze passate, quali elementi o approcci innovativi pensi di poter apportare al mondo della facilitazione?
Non sono certa di come questo possa tradursi in un approccio pratico alla facilitazione in Italia, ma sicuramente lavorare in contesti culturalmente molto diversi mi ha permesso di confrontarmi con valori, istituzioni e concezioni dello Stato e della comunità, che differiscono notevolmente da quelle con cui sono abituata. Questo mi ha spinto a non dare per scontato che il mio modo di vedere valori, relazioni e dinamiche istituzionali sia l’unico valido. Ho imparato a entrare nei contesti con una mentalità più aperta, senza dare nulla per scontato. Mi sono aperta a soluzioni più creative e inaspettate con curiosità.
Mi rendo conto che, pur sapendo che il nostro ruolo come facilitatori non è portare soluzioni ma facilitare i processi, realizzare questo sia più complesso, nella pratica, di quanto sembri. Molto spesso tendiamo a dare per scontato che certe cose siano condivise, ovvie o inevitabili, quando in realtà non lo sono. L’esperienza in contesti diversi mi ha spinta a riflettere su questo aspetto, a riconoscere quanto spesso consideriamo scontato ciò che in realtà non lo è. In ambienti così diversificati, questo processo di consapevolezza diventa particolarmente intenso e formativo.
C’è stata un’esperienza in cui ti sei resa conto che un approccio che davi per scontato fosse interpretato o funzionasse diversamente da quanto previsto?
Ci sono stati numerosi casi. Un esempio che mi viene in mente riguarda un workshop in cui ho scelto di usare immagini astratte chiedendo ai partecipanti di sceglierne una, che evocasse loro un’emozione, qualcosa da condividere a livello emotivo, da cui partire per esprimersi. Tuttavia, c’è stato un certo smarrimento da parte dei presenti, e mi sono resa conto che quel mezzo non stava funzionando come avrei immaginato. Ho cercato di adattarmi e capire dove potesse esserci un punto di incontro tra ciò che sentivo di portare e come formularlo in modo accettabile ed efficace per gli altri.
Altri esempi nascono dall’esperienza di aver anche vissuto in contesti diversi da quelli da qui provenivo. Mi sono ritrovata a fare i documenti per la patente o a compilare moduli per i visti, o semplicemente ad ascoltare le storie quotidiane di amici e colleghi. In molte situazioni ho capito quanto norme culturali, istituzioni e meccanismi apparentemente simili ai nostri potessero essere significativamente diversi nel loro funzionamento reale. In questi casi, ho cercato di non giudicare il sistema come disfunzionale, applicando i miei parametri, ma di considerarlo per quello che è. Ritengo che questo possa essere anche un insegnamento per il nostro lavoro, a ricordarci che la “soluzione” a qualsiasi problema dovrebbe tenere conto del contesto reale, considerarne i limiti, e sfruttarne il più possibile potenzialità e opportunità. A mio parere dovremmo esercitare il nostro ruolo di “outsiders” facendo attenzione a non proiettare il nostro modo di pensare come unica norma.
Ci sono state esperienze che ti hanno coinvolta emotivamente, nonostante il ruolo del facilitatore dovrebbe essere neutrale e distaccato?
Sì, assolutamente. Sebbene il ruolo del facilitatore richieda di mantenere una posizione neutrale e distaccata, ci sono contesti che possono essere profondamente emotivi. Entrare in contatto con situazioni di conflitto violento o di grandi disparità sociali è inevitabilmente toccante.
Una delle sfide più grandi per me è stata confrontarmi con queste reazioni emotive, che non avevo mai davvero esplorato in precedenza, e capire come gestirle, come starci dentro. È stato un processo di apprendimento molto intenso. Mi ha spinta a riflettere su come essere presente senza lasciare che le emozioni prendessero il sopravvento. Allo stesso tempo, ho cercato di mantenere un equilibrio e una postura adatta ad un ruolo di facilitatore multi-parziale.
Il concetto di multi-parzialità si e’ sostituito negli anni a vari concetti affini come “neutrale” e “imparziale”, soprattutto nell’ambito della trasformazione dei conflitti. Ma non si e’ neutrali perché non si resta davvero “fuori” dal conflitto. Nel momento in cui una persona entra in relazione con le parti in conflitto, diventa, anche se in diversa misura, parte di quelle dinamiche e di quelle relazioni. Inoltre, un facilitatore non e’ senza interessi o senza una propria posizione, per esempio rispetto all’ingiustizia. Assumere una posizione neutrale può impedire di riconoscere ingiustizie strutturali, mentre essere multi-parziali consente invece di lavorare per soluzioni eque senza ignorare le dinamiche di potere esistenti. Non si rifugge la relazione, ma si definisce come si sceglie di (o si prova a) stare in quella relazione. “Imparziale” può implicare una distanza, un “non si sta con nessuna delle parti”, “multi-parziale” invece implica che si sta con molte parti, provando a tenerle insieme. Essere multi-parziali significa impegnarsi attivamente a comprendere e valorizzare tutte le parti coinvolte, invece di assumere una posizione distaccata da tutti.
Quando ho studiato al Master in mediazione all’universita’ Cattolica utilizzavano il termine “equi-prossimo” invece di “equi-distante”, e credo che il concetto di fondo sia simile. Il mediatore/facilitatore non e’ lontano, ma vicino.
All’interno della fondazione, o in altre associazioni con cui hai collaborato, era previsto un supporto psicologico ed emotivo per affrontare queste situazioni?
Sì, sempre più organizzazioni stanno riconoscendo questa necessità. Il settore umanitario, dello sviluppo e della pace espone i professionisti a rischi elevati. Tra questi ci sono il burnout e, nei contesti più intensi, anche disturbi post-traumatici da stress.
Per questo motivo, molte organizzazioni si stanno attrezzando per far fronte a queste problematiche. Ad esempio, parte della mia formazione ha approfondito questi temi, con un modulo dedicato al trauma e alle sue diverse sfaccettature, dallo stress alla cura di sé. Ho imparato a riconoscerne i segnali, in me e negli altri, a chiedere aiuto e comunicare efficacemente all’interno dell’organizzazione. Inoltre, sempre più organizzazioni prevedono la possibilità di un supporto di coaching, in particolare per le persone che operano in contesti ad alto rischio. In sintesi, c’è una crescente attenzione a questo aspetto.