Dai cittadini ai decisori pubblici, il dissenso verso le opere strategiche non è più solo una reazione emotiva. Sempre più spesso è una vera e propria scelta politica. Il fenomeno NIMTO, come approfondito nell’articolo, blocca la transizione ecologica e alimenta la politica della non-decisione, trasformando il rifiuto del conflitto in uno stallo sistemico.
Oltre il NIMBY: una scala crescente di opposizione
Negli ultimi anni si è affermata una dinamica che va ben oltre le tradizionali contestazioni sociali legate alla realizzazione di infrastrutture come impianti energetici o grandi interventi edilizi. Non si tratta più solo del classico NIMBY – Not In My Back Yard, ovvero il rifiuto di avere opere o impianti nel proprio quartiere o comunità (come precedentemente trattato) – ma di un insieme di opposizioni sempre più diverse e complesse.
Se il fenomeno NIMBY riflette un’opposizione localizzata, spesso motivata dalla percezione di una minaccia alla qualità della vita o al valore del territorio, oggi si incontrano forme di rifiuto ancora più radicali. NOPE – Not On Planet Earth – esprime una chiusura totale: nessuna possibilità di compromesso, nemmeno se l’opera venisse realizzata altrove. Ancora più estremo è l’acronimo BANANA – Build Absolutely Nothing Anywhere Near Anything, che rappresenta l’atteggiamento di chi si oppone sistematicamente a qualsiasi nuova infrastruttura, ovunque essa venga proposta.
Questi neologismi, spesso usati in chiave ironica o critica, offrono una chiave di lettura utile per comprendere la crescente complessità del dissenso. Evidenziano inoltre l’urgenza di affrontare i conflitti territoriali con strumenti partecipativi, trasparenti e inclusivi,strumenti capaci di valorizzare sia le preoccupazioni legittime che le visioni condivise.
NIMTO: la politica del rinvio
A completare il quadro, si aggiunge una forma di resistenza meno visibile ma altrettanto incisiva: il fenomeno NIMTO – Not In My Term Of Office. Come documenta l’Osservatorio del Nimby Forum, le opposizioni non provengono soltanto dai cittadini, ma con crescente frequenza dagli stessi amministratori pubblici. Il blocco delle opere non è più quindi unicamente espressione del timore del cambiamento da parte dei cittadini, ma anche frutto di una strategia politica da parte degli amministratori locali.
Non si tratta solo della cosiddetta “paura della firma” – il timore, da parte di funzionari pubblici, di assumersi la responsabilità di approvare un’opera – ma anche della “paura del voto”. Molti amministratori, per timore di perdere consensi elettorali, scelgono di non decidere, di rimandare o addirittura di opporsi preventivamente a interventi strategici, pur se rilevanti a livello nazionale. Invece di promuovere un confronto pubblico e valutare nel merito i progetti, preferiscono assumere una posizione di chiusura, nella convinzione che l’inazione possa rafforzare il proprio consenso.
Questo atteggiamento finisce per alimentare un circolo vizioso. Se da un lato ci sono cittadini diffidenti e poco coinvolti, dall’altro si trova una politica che evita di guidare i processi, preferendo lasciarsi trascinare dall’onda del dissenso. Eppure, come sottolineato da Alessandro Beulcke, presidente del Nimby Forum, una politica responsabile dovrebbe rassicurare la cittadinanza sull’affidabilità delle verifiche ambientali, tecniche e di sicurezza, garantendo trasparenza e tutela dell’interesse collettivo.
Il risultato è spesso una vera e propria politica della non-decisione, che alimenta quella che alcuni sociologi definiscono “tirannia dello statu quo”: un’inerzia che blocca ogni possibilità di cambiamento, anche quando lo scenario attuale è insoddisfacente per tutti. Ne è un esempio la difficoltà di realizzare impianti per le energie rinnovabili, osteggiati a livello locale nonostante i benefici ambientali e sociali.
Un percorso verso una governance partecipata
La crisi decisionale che alimenta i fenomeni NIMBY e NIMTO mette in luce i limiti di un modello di governo ancora troppo centralizzato, che fatica a gestire la complessità delle sfide infrastrutturali e della transizione energetica. È sempre più evidente che una governance partecipativa rappresenti l’unica via sostenibile per affrontare questi ostacoli.
Piuttosto che ricorrere a soluzioni imposte dall’alto, è necessario costruire percorsi decisionali fondati sulla collaborazione tra settore pubblico, privato e società civile. In una società aperta e democratica, la gestione del dissenso non può prescindere da processi strutturati di dialogo, trasparenza e rassicurazione. È necessario raccogliere le diverse istanze in gioco e favorire decisioni che distribuiscano costi e benefici in modo equo e trasparente.